Smart working: tra opportunità di crescita e prevenzione dell’epidemia

Negli ultimi giorni stiamo assistendo ad un aumento del fenomeno dello smart working, utilizzato dalle aziende come strumento per prevenire la diffusione del nuovo Coronavirus. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di questo nuovo approccio e quali sono i requisiti necessari per metterlo in campo?

Articolo a cura di Bruno Herrmann – Associate Consultant JEF Napoli

 

A seguito dell’emergenza Coronavirus, che porta le persone ad evitare spazi affollati ed in generale ridurre il contatto con l’esterno, si sta assistendo ad un forte aumento del fenomeno dello Smart Working.

Cos’è lo Smart Working? E’ una nuova modalità di rapporto lavorativo caratterizzata dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.

In tutto questo la tecnologia gioca un ruolo chiave, perché quando si parla di Digital Transformation nei luoghi di lavoro si pensa anche all’applicazione di tecnologie avanzate per connettere persone, spazi, oggetti ai processi di business, con l’obiettivo di aumentare la produttività, innovare, coinvolgere persone e gruppi di lavoro. Bisogna comunque sempre tener presente che adottare lo Smart Working non vuol dire soltanto lavorare da casa e utilizzare le nuove tecnologie, lo Smart Working non è il telelavoro: è anche, e soprattutto, un paradigma che prevede la revisione del modello di leadership e dell’organizzazione, rafforzando il concetto di collaborazione e favorendo la condivisione di spazi. Nell’ottica smart, il concetto di ufficio diventa ‘aperto’, il vero spazio lavorativo è quello che favorisce la creatività delle persone, genera relazioni che oltrepassano i confini aziendali, stimola nuove idee e quindi nuovo business.

Da venerdì scorso il Coronavirus ha varcato i confini del nostro paese e lo Smart Working nelle aree colpite dall’epidemia (Lombardia e Veneto) è diventata la misura adottata da moltissime realtà italiane per cercare di ridurre al minimo le possibilità di contagio pur portando avanti le proprie attività.

Lo Smart Working non può essere la soluzione per “bloccare” l’epidemia ma, con l’impegno di tutti, può rappresentare una misura per ridurre rischi, attenuare disagi e contenere gli enormi danni economici e sociali che questa emergenza rischia di causare.

Dopo il maxi esperimento di Smart Working della Cina, adesso anche in Italia per arginare il dilagare del Corononavirus si ricorre al lavoro agile, che grazie a un decreto attuativo approvato d’urgenza è applicabile da subito, anche senza un accordo preventivo con i dipendenti. In particolare, il decreto attuativo del 23 febbraio 2020 n. 6 recante le misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 (sigla ufficiale che indica il Coronavirus) che causa la malattia COVID-19  prevede “la sospensione delle attività lavorative per le imprese […] ad esclusione di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare ovvero in modalità a distanza”. 

Come hanno riportato in questi giorni diversi quotidiani, sono tante le aziende che hanno chiesto ai loro dipendenti di limitare le trasferte di lavoro e lavorare in Smart Working, utilizzando gli strumenti di collaboration a loro disposizione: A2A, Ibm, Intesa San Paolo, Pirelli, Salini Impregilo, PwC, KPMG, Luxottica, Enel, Eni, Saipem, Snam, Vodafone.

 

Bruno Herrmman

Bruno Herrmman

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